Profilo

La poetica di Vincenzo Starnone oscilla tra due poli. Da una parte l’impegno sul terreno di un’indagine socio-antropologica corredata da un marcato senso icastico. Dall’altra una ricerca di astrazione formale che in certi casi tocca punte di intenso lirismo o manifesta una tensione verso un misticismo assolutamente insospettabile per un fotografo conosciuto forse soprattutto per la sua connotazione più spiccatamente sociale.

Proprio nel solco di tale indirizzo si collocano le sue prime importanti personali. Il vasto ciclo fotografico che ritrae luoghi ed abitanti di Francolise (1996), piccola cittadina della provincia casertana, rende immediatamente manifesta l’ammirazione di Starnone per un grande maestro della fotografia del secolo scorso come Cartier-Bresson. L’anno seguente (1997) con “Venerdì Santo a Procida” fornisce un altro pregevole saggio di “fotografia antropologica” che lo immette a buon diritto in quel filone tipicamente meridionale di indagine su riti e tradizioni sacre e profane che individua in personaggi come Mimmo Jodice, Marialba Russo o Lello Mazzacane i suoi esponenti di punta.

Ben presto, però, Starnone appunta il suo interesse sullo scenario metropolitano, identificato come ambiente privilegiato per l’analisi del tessuto sociale contemporaneo. E’ ciò che avviene con “Sopra sotto, viaggio a Parigi” (1999), la sua prima personale presso l’Istituto di Studi Filosofici di Palazzo Serra di Cassano a Napoli. Le fotografie presentate si basano sul contrasto tra i macroscopici cartelloni pubblicitari delle stazioni del metrò parigino (sopra) e le figure umane sottostanti (sotto). Le immagini smaglianti e seducenti dei primi sono infatti sistematicamente contraddette dalle espressioni di turbamento esistenziale e, più ancora, dalle condizioni di pietosa miseria in cui versano le seconde. Più che Cartier-Bresson ora il riferimento privilegiato appare piuttosto William Klein, benché Starnone introduca chiari elementi di denuncia che sono del tutto estranei invece allo spirito del fotografo americano. Né sono da trascurare alcune reminiscenze del naturalismo napoletano del ‘600, di cui il fotografo è un conoscitore non superficiale, che di tanto in tanto sembrano affiorare. Una grottesca figura di vecchia avvolta nei suoi lisi stracci e quella di un barbone precariamente assopitosi su di uno scomodo sediolino della stazione, in particolare, sono di una brutalità realistica riberesca.

Pur essendo Parigi probabilmente la città più babelica d’Europa, la società multirazziale non è una realtà esclusivamente parigina. Se a Napoli la popolazione extracomunitaria è meno numerosa rispetto a quella residente nella capitale francese, proprio per questo motivo vive più ghettizzata. Da tali riflessioni nasce “Viaggio nel lavoro” (2002), personale ospitata ancora presso l’Istituto di Palazzo Serra di Cassano. Riferendosi ad uno dei suoi viaggi in auto, “viaggi per il lavoro” durante i quali, dovendosi arrestare in continuazione agli innumerevoli semafori, gli accade spesso di imbattersi in poveri extracomunitari lavavetri o venditori di fazzoletti di carta, lo stesso Starnone scrive: “rivedo i lineamenti di antichi ricordi, rivedo i miei scatti fotografici vecchi di trent’anni, sono zingari, lustrascarpe, ambulanti, venditori di giornali con il carretto, tintori, artigiani” e conclude: “qualcosa unisce queste due epoche”. La mostra pone dunque a confronto lavoratori antichi e nuovi. Memorabili sono le fotografie che ritraggono i lavavetri che, compiendo, armati di spazzola, due impetuosi gesti, “robusti come quelli con i quali Franz Kline interpretava, nell’ambito dell’ action painting, la bellezza, le tensioni, dunque, le contraddizioni dell’immensa metropoli” (Massimo Bignardi), stendono e poi rimuovono il sapone sul parabrezza. Pur mantenendo distante la sua fotografia dai caratteri del mero reportage, operando invece in direzione di una trasfigurazione del contingente a tratti davvero poetica, Starnone evidenzia uno dei tratti più interessanti nelle dinamiche sociali di questi ultimi decenni e “rappresenta per immagini”, come osserva Gianfranco Borrelli, “situazioni il cui senso profondo la sociologia non è capace di descrivere”.

Già nel 2000, tuttavia, ovvero solo ad un anno di distanza da “Sopra sotto, viaggio a Parigi”, la personale “Frammenti flegrei”, che Starnone tiene alla Casina Vanvitelliana sul Fusaro, registra l’emergere di nuovi fermenti. Se nel 1999 e nel 2002 abbiamo visto il fotografo per nulla esitante a gettare la fotocamera nella mischia del caos urbano, nelle fotografie della mostra in questione il suo sguardo diviene lento e meditativo. Resti di scalinate greche e ruote di vecchie macine di mulino; muriccioli ad opus reticulatum e serie di bulloni infissi su pareti di cantieri ormai abbandonati: tali accostamenti stabiliscono un dialogo costante tra archeologia classica ed archeologia industriale, accomunate, del resto, dal logorio apportato loro nel tempo dai fattori atmosferici. Le inquadrature fortemente ravvicinate focalizzano l’attenzione sull’articolarsi vario delle forme, ulteriormente modulate da un sapiente dosaggio chiaroscurale. L’illustratore di scenari convulsivi e degradati si scopre dunque anche uno spirito contemplativo ed amante di silenziosità metafisiche.

A quest’ultimo indirizzo possono ascriversi anche le due fotografie presentate in occasione della collettiva “Digital Art”, tenutasi presso la Galleria Franco Riccardo Arti Visive di Napoli. Esse, come finestre, ci aprono lo sguardo alla contemplazione di un mondo parallelo a quello fenomenico, ma da esso distinto, in quanto governato da principi cosmici di armonia ed equilibrio. Una dimensione in cui, come nella pittura di Matisse, il conflitto, l’antitetico, il negativo, l’eterogeneo si risolvono quasi hegelianamente in una sintesi conciliatoria. Starnone sembra ora anelare ad uno stato in cui la gravezza della materia è trascesa dalla candida levità della figura fluttuante, il cui velo semitrasparente, che ora si mostra sovrabbondante, ora aderisce perfettamente alla pelle, producendo effetti di una politezza statuaria, pare quasi fondersi col corpo. Un corpo portato ad un grado di sublimazione tale che, malgrado le nudità non concede nulla all’erotico.

STEFANO TACCONE